martedì 17 dicembre 2013

Un viaggio nel passato alla ricerca del futuro (1.a)

Era il primo giorno del corso di scrittura creativa, lo avevo organizzato mesi prima e non vedevo l’ora che iniziasse. 

Era la prima volta che tenevo una vera lezione ed ero un po’ teso. Ero abbastanza schivo e odiavo la popolarità. Sperando di passare inosservato, per quel giorno, avevo optato per un look semplice, quasi trasandato. Non mi ero fatto la barba e i miei capelli castani erano lunghi e scompigliati come sempre. Mi ero messo una maglietta bianca e un paio di jeans chiari. Ai piedi le All Star che erano quasi un mio segno di riconoscimento. 

Appena fuori dall’aula mi ero appoggiato al muro, ripassando mentalmente il mio discorso introduttivo e ad un tratto mi ero sentito osservato: di fronte a me, una ragazza mi stava guardando compiaciuta, sorrideva come se stesse pensando a qualcosa che la metteva di buonumore. L’avevo guardata per qualche secondo con curiosità, lei aveva distolto lo sguardo ed era entrata in aula. 

Non ero nuovo all’essere osservato di sottecchi e normalmente la cosa non mi interessava. Ma quella ragazza era diversa. La prima cosa che mi era venuta in mente guardandola è stata E’ lei. Era carinissima. Non era una bellezza mozzafiato, no. Era normale. Indossava jeans blu scuro e una camicia bianca sagomata con le maniche al gomito. Anche lei aveva le All Star ai piedi, mi era venuto da ridere, chissà se lei aveva sorriso per questo. Era semplice. E con un paio di occhi di colore verde azzurro incredibili, perforanti. 

Fino a quel giorno non avevo creduto ai colpi di fulmine, ma, mentre la osservavo entrare in aula, ero certo che mi stesse capitando in quel momento: un fulmine era arrivato a sconvolgere la mia esistenza tranquilla e monotona e da quel momento tutto sarebbe stato diverso. Lo avevo capito subito. Dopo pochi secondi ero entrato in aula, cercandola con lo sguardo, senza nemmeno preoccuparmi di non darlo a vedere. Ero troppo eccitato, mi sentivo vivo, per la prima volta dopo anni. 

In preda ad una sorta di frenesia, avevo tenuto la prima lezione, senza quasi staccare lo sguardo da lei, che ricambiava le mie occhiate, facendomi impazzire. Avrei voluto che tutti gli altri sparissero e baciarla, lì, subito. Per un attimo avevo temuto anche di non riuscire a controllarmi e che avrei seguito l’istinto di saltarle addosso durante la lezione, incurante del pubblico. 

Appena era uscita dall’aula, l’avevo seguita e le avevo chiesto di venire fuori con me. Per quanto assurdo, sapevo bene che avrebbe acconsentito. L’avevo abbracciata e l’avevo portata al giardino botanico. Lei era presa da me allo stesso modo, non avevo dubbi. Si lasciava guidare senza staccare gli occhi dai miei, sembrava ipnotizzata. Ero felicissimo e le avevo chiesto il suo nome. Chiara

In quei pochi minuti, i suoi tratti si erano impressi per sempre nel mio cervello: la sua bocca piccola e attraente, i suoi occhi vivaci e cangianti, i suoi capelli a spaghetto, il suo corpo piccolo, proporzionato. Mi attraeva in maniera incredibile. Questa ragazza aveva qualcosa che non avevo mai trovato in nessuna. 

Eravamo stati pochi minuti insieme, poi Fabio era venuto a chiamarmi ed ero dovuto tornare in aula. L’avevo salutata e lei era rimasta lì a guardarmi come fosse frastornata. Il colpo di fulmine aveva colpito anche lei, ero sicuro. Felicissimo, ero corso via, fantasticando già sul nostro futuro. 


Soltanto appena tornato a casa, il peso della realtà era tornato a schiacciarmi e la felicità della mattina si era trasformata in uno strazio: non potevo coinvolgere un’innocente ragazza nella mia vita piena di pericoli. 

Avevo deciso, quindi, con una forza di volontà che non mi apparteneva, di tagliare quella storia non ancora iniziata e cercare, se possibile, di dimenticare Chiara, anche se mi sembrava pura follia.

Così il giorno dopo non l’avevo nemmeno salutata e avevo visto la delusione distruggere il suo splendido sorriso. L’immagine dei suoi occhi che mi cercavano e che vedevano in me un estraneo mi aveva fatto star male come niente altro al mondo. Cercavo di dissimulare la mia frustrazione e il mio dolore ed ero bravo nel mascherare i miei sentimenti, ero sicuro che stesse pensando che ero un bastardo. Meglio, sarebbe stato più facile. Per lei. 

Ero riuscito a comportarmi malissimo per tutta la settimana. Credevo che sarei riuscito nel mio intento di farmi odiare, ma di dimenticarla non se ne parlava proprio. Continuavo a vedere lei dappertutto. Pensavo a lei, sempre. Gli sguardi del primo giorno mi tormentavano. Non facevo altro che immaginare di baciarla, in mille modi diversi avevo immaginato il nostro primo bacio in quei giorni. E ognuna di quelle immagini era meglio di quella precedente. Mi stavo torturando, immaginando qualcosa che non poteva accadere, che sapevo non doveva accadere e che desideravo con tutto me stesso che accadesse.

Il lunedì mattina, appena arrivato davanti al cancello della facoltà, l’avevo vista. Stava parcheggiando la macchina. Il destino aveva voluto che ci incontrassimo di nuovo. La mia forza di volontà era svanita tutta di colpo. Mi sentivo come creta tra le mani di lei, volevo solo che mi guardasse, che mi toccasse, che mi facesse suo. Ero rimasto immobile, appoggiato ad un palo della luce, ad osservarla mentre usciva dalla macchina e si accorgeva di me. Probabilmente non mi odiava ancora perché un sorriso enorme le si era disegnato sul viso, le avevo teso le braccia e le avevo detto che mi era mancata, poi l’avevo abbracciata. In preda ad una felicità assurda per quel contatto, consapevole che per lei era lo stesso, non ero riuscito a trattenermi e le avevo sollevato il viso per baciarla. Credo che non sia esistito mai un bacio tanto perfetto, meglio di come lo avevo immaginato, troppe volte, nella settimana prima. Sentivo le sue labbra sulle mie, la sua lingua che mi esplorava e si univa alla mia, dolcemente. Ci fermavamo a riprendere fiato e continuavamo a baciarci, lì sul marciapiede, dove chiunque avrebbe potuto vederci. Dove chiunque sapeva chi ero. Ma in quel momento non me ne importava niente. Ero felice. 

Quando ci eravamo staccati non avevo potuto trattenermi dal ridere e le avevo detto che quella scena l’avevo vissuta nella mia testa tante volte. Lei aveva fatto un’espressione confusa e, come se stesse anche lei riprendendo il contatto con la realtà in quel momento, mi aveva chiesto spiegazioni. In un impeto di sincerità, le avevo detto chi ero. Lei era visibilmente sconvolta dalla mia confessione, non se lo aspettava proprio ed era entrata in aula senza rispondermi. 

La mia paura più grande, dopo aver realizzato che cosa le avevo detto, era che mi prendesse a schiaffi, ma non l’aveva fatto. 

In aula avevo di nuovo cercato i suoi sguardi e lei aveva ricambiato, anche se aveva perso l’aria decisa della prima volta e sembrava un po’ confusa. Non potevo darle torto. Mentre parlavo, qualcuno mi aveva fatto una domanda e, non so come, ero finito a parlare del destino. Il destino per me era Chiara e non avevo perso l’occasione per dire, sorridendo, che contro il destino non si può combattere. Dal suo sguardo avevo capito che lei aveva colto la mia allusione. Come avrebbe potuto non coglierla? Ogni mio pensiero, ogni cosa che dicevo era rivolta a lei.

Finita la lezione, contro ogni mio proposito, ormai incapace di seguire la razionalità, l’avevo invitata a pranzo ed avevamo passato un pomeriggio meraviglioso insieme. Sapevo che non avremmo avuto un futuro insieme, anche se Chiara era inequivocabilmente la mia anima gemella, l’altra metà del cielo, quella che si incontra una sola volta nella vita. 


Ero così preso da Chiara, che le avevo anche chiesto di sposarmi quel pomeriggio; lei era rimasta visibilmente colpita, lusingata forse ed era arrossita, ma mi aveva dato la risposta che non avrei voluto sentire. Se mi avesse gettato le braccia al collo dicendomi di sì in quel momento, forse sarei scappato con lei, sarei fuggito a gambe levate dalla mia realtà, lasciandomi tutto alle spalle. Ma Chiara, dimostrandosi molto più matura della sua età (e anche di me), mi aveva risposto razionalmente, dicendomi di no. Anche se aveva delle ottime ragioni per rispondermi così, le sue parole mi avevano smontato e avevano frenato la mia eccitazione, riportandomi con i piedi per terra. 

In quel momento mi sentivo così coinvolto e avevo sentito un’ammirazione per lei così grande che mi ero sbilanciato dicendole che avrei voluto dirle che l’amavo. Lei era rimasta a guardarmi, probabilmente chiedendosi a che gioco stessi giocando e allora avevo cambiato discorso parlando di banalità, lanciando ogni tanto qualche battuta sul fatto che avremmo potuto essere amanti se avessimo voluto, che per noi c’era solo questa possibilità. Mi ero comportato malissimo, ma non volevo illuderla più di quanto non stessi già facendo. E poi ci eravamo salutati molto tristi, dicendoci che la cosa finiva lì. 

I giorni successivi a lezione erano stati tremendi, era terribile che lei fosse lì e io non potessi toccarla, abbracciarla, baciarla e quasi nemmeno parlarle. Non avrei saputo trattenermi. L’ultimo giorno ci eravamo salutati freddamente e lei mi aveva fatto gli auguri per la mia nuova vita. Era stato terribile sentirsi dire parole di circostanza, sapendo bene che né io né lei avremmo mai voluto che io compissi quel passo. Avevo trascorso la settimana successiva, tentando in ogni modo di dimenticarmi di lei, ma non era facile. 

Una sera, per disperazione, ero andato da solo ad un concerto e il destino aveva voluto che ci incontrassimo di nuovo. Durante la prima mezz’ora ero stato completamente distratto e sentivo nell’aria il suo profumo, sentivo che l’avrei incontrata presto. Cercavo nelle file davanti, nel buio, sperando di incontrare il suo sguardo, ma non era accaduto. 

Queste cose succedono solo nei film, mi ero detto. 

Poi mi ero sentito bussare su una spalla e sapevo già che era lei, ma avevo paura di voltarmi perché temevo di rompere l’incantesimo. Come in un film al rallentatore, mi ero girato e avevo visto il suo viso nel buio. I miei occhi si erano illuminati e anche i suoi. Eravamo scoppiati a ridere. 

Camminando come due fidanzati, eravamo andati al porticciolo e ci eravamo sdraiati su un masso, fianco a fianco. La luna, la notte, le stelle, il mare, l’estate mi rendevano euforico e fin troppo consapevole del suo corpo accanto al mio. Non mi era capitato mai prima, avevo iniziato a tremare, il mio corpo era scosso da brividi violenti e inarrestabili. Se n’era accorta immediatamente. Ci eravamo girati contemporaneamente l’uno verso l’altra e, come qualcosa che non puoi fermare, ineluttabile come il destino, ci eravamo trovati avvinghiati a baciarci eccitati. 

Non so per quanto tempo eravamo rimasti così, io sentivo il mio cuore scoppiare e non ero riuscito a trattenere le mie emozioni, così le avevo detto che l’amavo. Lei si era alzata e mi aveva preso per mano, portandomi in una spiaggetta illuminata solo dalla luna sopra di noi. Mi ero sentito come se fossi il protagonista di un film, mille pensieri mi avevano attraversato la testa, l’eccitazione di quel momento era incredibile. La guardavo, tenendola per mano, cercando di leggerle nella mente i pensieri che potevo facilmente indovinare. Non era difficile immaginare fin dove ci saremmo spinti quella sera e non vedevo l’ora. Sapevo che lei era ancora molto giovane e che probabilmente aveva deciso di concedersi a me per la prima volta, contro ogni buon senso. Ma ero troppo egoista e la desideravo troppo per cercare di dissuaderla. Mi aveva sorpreso per la sua intraprendenza quando, guardandomi negli occhi, si era sfilata il vestito ed era rimasta con un completino intimo azzurro che le donava in maniera incredibile. Continuando a percorrere la strada che era già segnata, le avevo detto che era bellissima e poi mi ero spogliato anche io. Aveva guardato il mio corpo con indosso solo i boxer blu con un’aria carica di desiderio e insieme ci eravamo diretti in acqua. Era stato tutto molto naturale fra di noi. Immagino che sia andata così bene proprio perché eravamo noi due, non poteva andare diversamente, non poteva andare male. Non con lei. 

Avevamo passato il limite, sarebbe stato ancora più difficile tornare indietro. Non ci eravamo detti molte parole, non ce n’era bisogno. Sapevamo perché l’avevamo fatto: non potevamo rinunciare a questi momenti, sarebbe stato un rimpianto troppo grande per entrambi. Così avevamo deciso di vivere comunque il momento, a dispetto della realtà. 

L’avevo accompagnata a casa e pensavo di essermi innamorato follemente di lei, non volevo separarmene perché temevo per l’indomani. Il nostro futuro non era certo. La notte non avevo chiuso occhio, non avevo fatto altro che pensare a quei momenti meravigliosi e immaginavo di riviverli ancora… e ancora. 

La mattina dopo mi sentivo un quindicenne alla sua prima cotta, ero andato a prenderla ed eravamo stati tutto il giorno insieme. Le giornate si erano susseguite felici e simili, sempre innamorato, sempre con lei, per dieci interi giorni. 

Le mie sicurezze vacillavano in quel periodo e da lei volevo delle certezze che non mi dava. La sua maturità era sempre troppo evidente, come una barriera tra noi. Stroncava le mie proposte di matrimonio perché non voleva illudermi che sarebbe rimasta con me per sempre. Era molto onesta, riconosceva che a diciotto anni non era facile promettersi sinceramente a un uomo appena conosciuto (che non si comportava come uno stinco di santo oltretutto). La mia stima nei suoi confronti cresceva sempre di più. E anche l’amore. 

Chiara aveva un modo di fare che mi stupiva e mi sconvolgeva, affascinandomi immensamente. Dimostrava di apprezzare il mio modo di essere, le piacevo davvero. La sua presenza nella mia vita mi stava ricreando, stavo nascendo una seconda volta, mi sentivo un fortunato come pochi ad avere avuto questa occasione. Per quanto mi sembrasse assurdo, per qualche strana ragione lei sembrava essere innamorata di me almeno quanto lo ero io di lei. Non mi ero mai sentito così, nemmeno quando mi ero innamorato per la prima volta.

Per me Chiara era come una droga, non riuscivo a pensare di stare senza di lei. Andavo a prenderla alle otto del mattino e la riaccompagnavo a casa a notte fonda. Facevamo un sacco di cose insieme, anche le più stupide, divertendoci come matti, ridevamo molto, per qualsiasi cosa.

Mi sentivo un pazzo, avevo la certezza di essermi follemente innamorato e anche la certezza che non saremmo mai stati insieme e la colpa era solo mia.

L’ultima volta che ci eravamo visti, avrei voluto scriverle una dedica bellissima che rispecchiasse i miei sentimenti per lei, ma ero riuscito solo a scarabocchiare “Per la prossima vita che vivremo. Come anticipo”. Era un pensiero molto triste, senza speranza, come ero io. 

Avevo poi preso in prestito le parole, altrettanto tristi, del mio poeta preferito Pablo Neruda e le avevo dedicato alcuni versi struggenti il cui significato è ti lascio e ti auguro di dimenticarmi, ma ti sarò sempre accanto. Esattamente quello che provavo per lei. 

Quella sera l’avevo accompagnata a casa e sotto il portone ci eravamo salutati frettolosamente, lei era scesa dalla macchina e non si era voltata indietro. Sapevo che non lo avrebbe fatto e speravo invece che lo facesse. Forse, in quel caso, la mia volontà avrebbe vacillato di nuovo. 

Mi ero allontanato nella notte, in compagnia del silenzio e della sua assenza accanto a me, così palpabile dopo dieci giorni in cui non avevo visto che lei per quasi venti ore al giorno. Stavo malissimo. 

Avevo telefonato a Fabio e mi ero fermato per un paio di birre insieme, sperando di distrarmi e poi, tornando verso casa mia, ero ripassato sotto casa di Chiara e mi ero fermato qualche minuto. Completamente distrutto, speravo che chissà per quale motivo assurdo, lei sarebbe uscita alle tre del mattino, mi avrebbe visto lì e mi avrebbe abbracciato. Ma ovviamente non era successo. 

Succede solo nei film

Ero tornato a casa e avevo pianto quasi tutta la notte, sentendomi davvero miserabile.


Per la versione della storia dal punto di vista di lei, qui.

venerdì 15 novembre 2013

Un viaggio alla ricerca di qualcosa che non c'era

Chattavo sin da quando chattare si era diffuso come metodo di comunicazione alternativo.
Erano le prime chat, ancora rari erano i blog, non esistevano il messenger e icq, meno che mai le web cam integrate nei computer (almeno in quelli comuni), l’e-mail stava iniziando ad essere utilizzata a livello popolare e hotmail era quella più diffusa.
Avevo conosciuto Felix in una chat di mIRC.
Come sempre accadeva allora (e probabilmente continua ad accadere, ma non frequento più le chat!), se entravi in chat con un nome femminile, potevi scommettere che dopo nemmeno dieci secondi saresti stata tempestata da messaggi privati di uomini che volevano chattare con te.
Una volta avevo provato a usare il nickname “Pippo”… non mi si era filato nessuno. Avevo allora contattato uno dei nomi presenti in chat e avevo preso a parlargli. Il tale rispondeva a monosillabi e mi lasciava ad attendere le sue risposte per minuti: non aveva nessuna intenzione di conversare con un Pippo. Solo quando gli avevo rivelato che ero una donna, avevamo avviato una divertente conversazione, nella quale io avevo cercato di spiegargli che ero una donna e lui non mi aveva essenzialmente creduto, anche se era rimasto un po’ spiazzato da quello che avevo detto perché probabilmente, in fondo, si capiva che ero donna davvero. Solo che poi, il mio indirizzo e-mail, che allora era lo stesso di mio padre e che portava il suo nome (maschile chiaramente), aveva fatto desistere il tale, che mi aveva congedato come uomo con probabili inclinazioni omosessuali.
Avevo tre nickname, nella chat di mIRC. Quello che usavo di più era Sky – cielo, il nick con cui mi sentivo più a mio agio, che mi ispirava serenità e mi rappresentava bene tutti i giorni -, poi c’era Pearl – quando mi sentivo un po’ più triste o sola -, infine Moira – il nick che usavo quando ero molto allegra.
Mi collegavo in chat quasi ogni sera, soprattutto perché in quel periodo mi annoiavo. Avevo rotto da poco con un tizio e non uscivo spesso. Dopo una lunga e stressante giornata di lavoro, chattare mi rilassava.
E poi, spesso, entravo in chat nella speranza di incontrare il mio amico M., la prima persona che ho conosciuto in questo mondo virtuale, un ragazzo d’oro, con cui in seguito mi sono anche incontrata, che mi ha insegnato un sacco di cose sulle chat e che, non dimenticherò mai, mi inviò, una volta, per e-mail, un programma da 2 Mb che il mio computer ci mise oltre due ore a scaricare. Che tempi!
Ricordo ancora, a distanza di molti anni, i discorsi filosofici, durati un’intera notte, con un certo Andrea di Firenze. Discorsi incentrati sui rapporti umani e il riconoscersi tra persone affini, perché dotati di antenne complementari.
Ricordo poi il Principe, un ragazzo romano, più giovane, che mi scriveva poesie. Poesie alle quali io non rispondevo e, più non gli rispondevo, più lunghe e belle le poesie diventavano.
O ancora Quelo, con cui ridevamo a crepapelle delle battute di Corrado Guzzanti.
La sera che avevo conosciuto Felix, il mio nickname era Sky. Tra tutti quelli che mi avevano mandato messaggi, appena aperta la chat, avevo scelto il più semplice e simpatico. E avevamo parlato tutta la notte, salutandoci alle 6 del mattino. Ci eravamo raccontati di tutto e scambiati le fotografie.
Io allora mandavo sempre una foto – che mi piaceva da morire - scattata un paio di anni prima, che mi ritraeva a piedi scalzi, seduta sul bordo di una fontana, con un vestito a fiori su sfondo blu, leggermente truccata e abbronzata, una notte a Ibiza. Gli era piaciuta.
Lui mi aveva mandato un primo piano, nel quale i suoi bei lineamenti risaltavano.
Erano i primi di gennaio, dopo qualche conversazione in chat, sempre più lunga e sempre più personale, mi aveva chiesto il numero di cellulare e mi aveva dato il suo. Così avevamo iniziato a sentirci anche al telefono. Mi piaceva davvero. Pensavo di essere uscita dal tunnel dell’innamoramento non ricambiato per un’altra persona, tunnel nel quale vagavo da oltre due anni.


Un giorno, un paio di mesi dopo il nostro primo incontro in chat, avevamo convenuto che urgeva conoscersi di persona, per capire cosa ne sarebbe stato di quel rapporto, che ci stressava perché era già parzialmente caratterizzato dalle arrabbiature e dalle litigate di una storia normale, ma non da quello che di solito costituiva la contro parte piacevole di un rapporto di coppia, dato che non ci eravamo mai visti di persona. Abitavamo ai poli opporti della penisola, quindi avevamo deciso che Roma sarebbe stato il luogo ideale per il nostro primo incontro.
Non ero partita pensando che stavo facendo un colpo di testa, credevo davvero che mi piacesse, pensavo che a Roma ci saremmo messi insieme, finalmente. Avevo preso il treno quella sera carica di aspettative.
Durante la prima mezz’ora di viaggio, avevo parlato circa dieci volte con la mia amica Anna, unica che conosceva le ragioni della mia breve permanenza a Roma. Agli altri avevo detto che andavo per lavoro. Tanto nessuno ha mai capito niente del lavoro che faccio, potrei inventare pure che vado al Polo Nord per lavoro e ci crederebbero tutti.
Ero in fibrillazione per l’imminente incontro e ero certa che non avrei chiuso occhio. Mi ero chiusa a chiave che ancora non erano nemmeno le dieci e mi ero messa a leggere alla luce fioca della mia cuccetta di mezzo. Non che riuscissi a leggere, ero troppo emozionata e non facevo altro che fantasticare su come sarebbe stato il nostro primo bacio.
A un certo punto, avevano bussato alla porta, avevo fatto finta di dormire, sperando che, chiunque fosse, desistesse. Volevo stare sola e godermi il mio sogno ad occhi aperti.
“Sono il controllore” - aveva detto una voce fuori dalla porta - “Apra, devo fare entrare una persona”.
Per un attimo, avevo pensato di continuare a fingere di dormire, ma il controllore avrebbe potuto pensare che stavo male e avrebbe potuto buttare giù la porta, o, più semplicemente, entrare, senza troppa fatica, aprendo con il suo passepartout.
Allora, avevo fatto finta di essere stata colta nel sonno e, sbadigliando sonoramente, avevo biascicato - “Un attimo!” e, dopo una lenta e rumorosa discesa dalla cuccetta, avevo aperto la porta.
Di fronte a me, un ragazzo alto e biondo, accanto al corpulento controllore, mi guardava incuriosito. Il leggero sorriso sulle labbra lo rendeva quasi irresistibile.
Il ragazzo alto era entrato nello scompartimento, passandomi accanto sull’uscio, senza aspettare nemmeno che io mi spostassi ed era andato a sedersi con i piedi penzoloni nella cuccetta in alto, nella fila di fronte alla mia. Muoveva le gambe come i bambini e non avevo potuto fare a meno di notare le Converse All Star blu ai piedi. Le mie scarpe preferite, del mio colore preferito. Come le mie.
Improvvisamente, non mi dava più così tanto fastidio l’aver dovuto accogliere uno sconosciuto nel “mio” scompartimento.
Avevamo parlato fino a notte inoltrata: mi era davvero simpatico e mi piacevano i suoi modi di fare.
Il sorriso sincero, il modo con cui gesticolava o masticava la gomma americana, il modo in cui parlava.
L’attrazione era stata reciproca, ma io stavo andando a conoscere quello che credevo fosse l’uomo della mia vita, per cui avevo fatto finta di niente quando Sebi, in procinto di salutarci, aveva tentato, timidamente, di chiedermi il numero di telefono.
Poco prima della sua fermata, ero andata in bagno e, al mio rientro lui era già pronto con la valigia in mano e il cappotto indosso; mi aveva stretto la mano, guardandomi negli occhi e mi aveva dato un bacio sulla guancia.
Era rimasto imbambolato sull’uscio per un po’ e io mi ero voltata imbarazzata, temendo che potesse tentare di baciarmi sulla bocca. Il mio occhio era allora caduto sulla mia borsa semi aperta, dalla quale spuntava il bordo di un’audiocassetta. Avevo riconosciuto una sua cassetta, di cui mi aveva parlato, quella del concerto di Simon & Garfunkel a Londra, registrata live da lui.
Senza pensare che potesse non essere un caso che quella cassetta si trovasse nella mia borsa, gli avevo detto stupita - “Guarda, la tua cassetta è caduta nella mia borsa” e l’avevo presa in mano, porgendogliela.
Lui era arrossito violentemente e allora avevo capito. Avevo guardato la cassetta, rigirandomela tra le mani, e avevo letto il messaggio che vi aveva scritto. Imbarazzatissima, rapidamente, gli avevo consegnato la cassetta, accompagnandola con un’espressione che voleva dire “Tu mi piaci ma… insomma, scusa, ma non posso accettare”.
Lui l’aveva presa, mi aveva guardato intristito, ancora rosso in viso e deluso visibilmente dalla mia reazione ed era scappato via. Dopo qualche secondo, la sua fermata. A dividerci per sempre.
L’incontro con Sebi mi aveva lasciata un po’ spiazzata. Il gesto di regalarmi quella cassetta che per lui aveva un valore inestimabile, mi aveva colpito molto.
Ma avevo altri pensieri in testa quel giorno. Scesa dal treno, mi ero recata in albergo, avevo fatto una doccia e avevo atteso fremente che si facesse l’orario stabilito per il nostro appuntamento. Era una giornata piovosa e c’era un freddo cane, mi ero messa un paio di pantaloni e un maglioncino di lana e un paio di scarpe, con tacco alto, ma comode.
Sulla metropolitana, andando all'appuntamento, non avevo fatto altro che pensare a Felix e alla svolta che di sicuro avrebbe avuto la mia vita da quel giorno. Pensavo addirittura di potermi trasferire per seguirlo.
Non c’era spazio, nelle mie fantasie, per il ragazzo alto conosciuto in treno che, seppure, mi aveva lasciato qualcosa nel cuore.
Poi, nel momento esatto in cui avevo visto Felix venirmi incontro, dinoccolandosi, con aria da bulletto, con l’aria di uno che se la tira, i miei sogni si erano infranti fragorosamente. In quell'istante, il modo di fare di Sebi - che mi era piaciuto tanto -, mi era tornato in mente e avevo realizzato che avevo sbagliato.
Che ero stata un’illusa a pensare di potermi innamorare di una voce o di quattro parole scritte su uno schermo. Che una fotografia, anche se reale, non coglie il modo di fare di una persona, molto più importante dell’aspetto stesso. Che quella persona che mi piaceva era solo nella mia mente e che Felix non c’entrava niente, era solo una proiezione dei miei desideri.
E' stato uno degli incontri più imbarazzanti della mia vita.
Non sapevamo cosa dirci ed era più che evidente che la sensazione di disagio fosse reciproca e che non ci saremmo sentiti mai più. Che lui era rimasto deluso tanto quanto me e che avrebbe voluto trovarsi di fronte una femme fatale, magari in minigonna e tacchi alti, invece di una ragazza semplice, con solo un filo di trucco, pantaloni e scarpe comode… semplicemente me.
In treno al ritorno, una coppia di giovanissimi, non aveva fatto altro che pomiciare selvaggiamente nella cuccetta sotto la mia, rammentandomi che io invece ero da sola.
Avevo pensato a Sebi tutto il tempo. Mi ero maledetta per avergli restituito la cassetta. Dopotutto lui me l’aveva regalata e restituirla era stato pure un po’ scortese.
Le parole che vi aveva scritto, in stampatello, con il pennarello indelebile verde, sulla plastica, non facevano altro che tornarmi in mente, erano lì, come scolpite nella mia mente. Tutte, punteggiatura compresa, tranne la cosa più importante.
È stato bello conoscerti. Se ti andasse di rivedermi, ne sarei felice. Il mio numero è questo: 0338/918…

E a qualche ombra che mi sfiorerà darò il tuo nome perché la mia anima le risponda


Per l'immagine grazie a Lady Alexandra di Diario di Corte


Mi torni in mente e mi chiedo se sei un ricordo sbiadito dalla nebbia del tempo o forse piuttosto sei un sogno.
Era bastato solo uno sguardo per capire che eri quello che stavo cercando, che tu eri l'anima gemella che non credevo esistesse. Ne ricordo la consapevolezza, quando ci siamo conosciuti, poche parole scambiate ma i nostri occhi che si cercavano sempre. E la voglia irrefrenabile di farsi travolgere dal destino.
Una sera ci siamo incontrati per caso, lontano da tutto quello che rappresentavamo l'uno per l'altra nella nostra vita quotidiana. Era il nostro destino.
Ricordo, come in un sogno con i contorni sfocati dal tempo, il brillare dei tuoi occhi nel momento in cui si sono posati su di me, le nostre parole, discorsi infiniti, sul passato, sulle coincidenze, sull'anima gemella, sul destino che ci aveva fatto incontrare.
Parlavamo delle cose che avevamo in comune e ti leggevo pezzi dei miei libri preferiti e delle mie poesie. Tu ascoltavi rapito, da me, dalle mie parole, da quello che si stava succedendo... tu, che mi tremavi accanto, spaccato tra desiderio e razionalità cosciente delle nostre ali tarpate.
Fino a che quello che sapevamo essere il nostro destino ci ha travolto con furia e la freschezza dei miei spensierati vent'anni si è abbattuta su di te, con la violenza di un temporale che risveglia piangente un bambino da un sogno.
E allora tutto è diventato estasi e stretti l'uno accanto all'altra, parlavamo, sorridevamo e promettevamo di essere sempre l'uno per l'altra quello che eravamo allora.
Finì come doveva finire, lo sapevamo che sarebbe andata così.
Nessun rancore e tanta nostalgia per le nostre ali che non si sarebbero più spiegate in volo, non più insieme.
Mi hai salutato dedicandomi la più bella e struggente dedica al mondo.
Ma tutta la mia vita non sarà che un canto di nostalgia per la felicità perduta… ti auguro di dimenticare presto il mio nome e di trovare un amore che ti dia soltanto gioia. Ti seguirò da lontano con la fedeltà del ricordo e sarò felice di saperti felice all'infuori di me. Me ne andrò per le strade con il tuo sorriso dentro il cuore e a qualche ombra che mi sfiorerà darò il tuo nome perché la mia anima le risponda.

sabato 2 novembre 2013

Notte (1998)

Per l'immagine grazie a Lady Alexandra di Diario di Corte
Intorno, la luce chiara
si taglia come fosse nebbia densa.
Improvvisamente, il buio
ad avvolgere tutto
me, gli altri, il mondo intero.
Vago nell'oscurità e incontro
le anime di quelli che mi hanno preceduto
nel viaggio che sto per iniziare.


giovedì 31 ottobre 2013

Lampada Osram

Sottotitolo: il mio quasi primo bacio

Era tanto tempo fa, in un periodo in cui ascoltavo alcuni LP di Claudio Baglioni a ripetizione e Lampada Osram era una delle mie canzoni preferite, anche perché mi ritrovavo un po' nella protagonista ammarronata. E, in generale, la malinconia di Claudio Baglioni mi si confaceva.
Non avevo motivi per essere così malinconica... ero giovane, stavo bene, avevo tanti amici e una famiglia serena, ma lo ero.
In quei giorni, un po' inconsapevolmente, stavo illudendo un po' uno con cui ogni tanto uscivo il pomeriggio e che un po' mi piaceva pure, ma, in effetti, ero cotta di un altro.
Quest'altro era uno che mi illudeva, non so quanto inconsapevolmente, e che metterei nella categoria dei "confusi e infelici", anzi, che, in quel periodo, era sul podio dei confusi e infelici della mia vita. 
Quindi, quella mattina, con il tizio con cui uscivo ogni tanto, camminavamo... mano nella mano... ?!
non mi ricordo bene questo particolare... ma forse sì, perché l'ho detto che lo stavo un po' illudendo il tipo (ma, a mia discolpa, avevo quindici anni e frequentavo un gruppetto in cui uscire insieme e tenersi per mano non significava chissà cosa).
A un certo punto, questi fece una battuta che lasciava molto poco spazio all'interpretazione e da quella capii che lui era andato oltre... per me era un'amicizia molto piacevole, ma non ero affatto determinata a farla diventare qualcosa di più, almeno non subito, non in quel momento in cui sul podio c'era qualcun altro.
Dopo pochi secondi dalla battuta, giunse il gesto... l'avvicinarsi piano, con lo sguardo che si sposta dagli occhi alla bocca. 
Non so cosa lesse nei miei occhi e non so nemmeno cosa volessi trasmettere io.
Sapevo che il mio rifiuto lo avrebbe ferito e ci avrebbe allontanato e mi dispiaceva, ma sapevo anche che non potevo dare il primo bacio a qualcuno di cui non fossi innamorata... quando il qualcuno di cui ero innamorata esisteva, lo vedevo ogni giorno e, sebbene mi desse segnali fortemente contrastanti, del tipo un giorno ero al centro dei suoi pensieri e il giorno dopo non esistevo, dentro di me sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa. E, per la cronaca, ho mantenuto questa convinzione da illusa fino a quando, quasi due anni dopo, giunse colui che dal podio lo spodestò.
Così, con in mente mille pensieri, decisi per la classica mossa del girare la faccia e il mio quasi primo bacio si stampò sulla guancia e mi sfiorò un angolo della bocca. 

C'è un modo di dire che è "fare testina"... quando uno si avvicina per baciarti e tu vai indietro con la testa. Se c'è un modo di dire, sarà frequente... a me è capitato solo quella volta. Le altre volte, ho ricambiato o non ho permesso che arrivassimo a quel momento. E, fortunatamente, non mi è mai capitato che qualcuno facesse testina a me. Ma perché capita? Tralasciando quando hai quindici anni, che di stronzate sei autorizzato a farne per via dell'età (quella che io e un paio di amiche chiamiamo "della bestialità")... se capita da grandi... perché?
Perché la gente ti illude anche se non ti vuole e te lo fa capire solo nel momento in cui tenti di baciarla, che è l'ultimo momento in cui può tirarsi indietro? Perché la gente è confusa e non sa quello che vuole e lo capisce proprio quando stai per baciarla (che non ti vuole)?



giovedì 24 ottobre 2013

Tristezza (1993)

Per l'immagine grazie a Lady Alexandra di Diario di Corte


Distruggiamo le memorie
e riponiamo i nostri sogni in angoli bui che non vedranno
mai più la luce.
Ombra, lascia che di me solo questo rimanga
e, fantasma in un castello,
errante nella notte
sentirai di me stridere le catene
Sono le mie lacrime
che scendono pesanti come pezzi di ferro
lasciando sul volto solchi profondi
come pozzi neri di cui non si vede il fondo.

lunedì 21 ottobre 2013

Ancora tra un anno (1993)

Grazie a Lady Alexandra, di Diario di Corte per l'immagine.


Sarai ancora qui
tra un anno
tra due o tra dieci
a riempire le mie giornate
e impossessarti dei miei pensieri

Sarà magari il sorriso di un altro
a ricordarmi la dolcezza del tuo
e ad accendere nella memoria
le parole e le immagini
che ti rendono a me

Camminerò felice per le strade
e sorriderò stringendomi a lui
pensando di esserti ancora accanto

martedì 15 ottobre 2013

La casa con bagni separati: l'inizio


Questa casa, casa nuova, l’avevamo vista tempo fa, molto tempo fa, quando non ce la potevamo nemmeno permettere, sulla carta. 
Ci era piaciuta subito, a tutti e due. Su alcune cose andiamo perfettamente d’accordo. 
Poi sono passati degli anni e, a fine del 2008, la casa ci si è ripresentata davanti. Ancora sulla carta e lievemente diversa nella divisione interna e, soprattutto, con un’esatta allocazione nello spazio, a noi visibile sotto forma di grosso scavo in cui bisognava stare attenti a non scivolare. 
Sebbene la divisione interna non fosse il massimo della comodità, abbiamo deciso lo stesso che quella sarebbe stata la casa della nostra vita, così abbiamo iniziato a trattare con i costruttori. Siccome io sono una persona abbastanza testarda e a volte anche parecchio rompiballe, mi sono sbilanciata a chiedere delle modifiche strutturali che eravamo quasi certi non si potessero fare per ragioni burocratiche. Sono arrivata addirittura a dire che avrei rinunciato alla casa se alcune modifiche non fossero state attuabili. 
In particolare una, ho sempre avuto un sogno: quello di avere una camera con bagno annesso, come negli alberghi. Alzarmi di notte e percorrere spazi solitari e bui per andare in bagno, non è mai stata la mia attività preferita. Ricordo ancora quanti tentennamenti, solo per sporgere il braccio di venti centimetri nel lungo corridoio buio di casa nella notte, così da accendere la luce e poter raggiungere il bagno a circa un paio di metri dalla mia stanza di ragazzina.
Quindi, il bagno in camera era un MUST. Inoltre, questa sarà la mia casa definitiva, almeno così spero, quella della mia vita, quindi non avrò altre possibilità di avere un bagno in camera. 
E già mi pesa rinunciare alla piscina! Che sarebbe un altro sogno... di cui parlerò un'altra volta.
La divisione della casa, in base al progetto, ci era sembrata bella, ma scomoda. Tutti gli spazi della casa erano concentrati al piano terra e le stanze erano, per forza, piccole e poi c’era un solo bagno e non in camera. 
Un’altra cosa che desideravo era un bagno per gli ospiti, il cosiddetto bagno di rappresentanza, in modo che non necessariamente chiunque andasse in bagno a casa mia dovesse conoscere la marca degli assorbenti che uso o che libri leggo quando sono seduta sulla tazza. 
Quando l’impresa ci ha detto che erano possibili tutte le modifiche che volevamo, io e il marito ci siamo sbizzarriti. Abbiamo completamente cambiato la casa. Non c’è una destinazione d’uso, adesso, che coincida con quella iniziale. Tutte le modifiche ruotavano intorno alla necessità di avere il bagno in camera. Abbiamo spostato la scala, le colonne e il garage e, alla fine, gli stessi dell’impresa ci hanno fatto i complimenti, perché il nostro progetto è stato molto più funzionale di quello che avevano fatto loro.

venerdì 11 ottobre 2013

Il ragazzo dalla pigna appesa al collo con una cordicella sottile





Mi guardo intorno: la mia stanza è sempre la stessa da quasi dieci anni. 
Sdraiata sul mio letto ad una piazza e mezza, guardo la scrivania con il mio PC, ormai indispensabile compagno delle mie giornate (e nottate) e ai muri tante di quelle cose appese che non so come farò a portarmele tutte quando andrò via. 
Spero in una telefonata. 
Penso che mi ritrovo sempre qui, sdraiata sul mio letto, ogni volta, sotto alla motoslitta ribaltata nella tundra di notte in mezzo alla neve e ai lupi, a rimettere a posto i cocci del mio cuore spezzato dal "fidanzato" confuso e infelice di turno. 
Mi chiedo se finirà prima o poi. Ripensando a Baricco in "Oceano Mare", mi chiedo, come Bartleboom, se da qualche parte esiste quello che da sempre è il mio uomo, colui al quale regalerò tutti gli istanti della mia vita… 
Sono immersa malinconicamente in queste riflessioni quando squilla il cellulare. Salto in aria. E' la mia amica che mi propone di andare al mare con lei e mi dice: "... Ah, viene pure l'amico di mio fratello, forse te lo ricordi, lo hai conosciuto a capodanno". 
Io, che non ho affatto memoria per gli sconosciuti e che a capodanno ero impegnata a cercare di sedurre quello che ora è l'ex "fidanzato" confuso e infelice di turno, rispondo distratta che non me lo ricordo e penso che preferivo stare sola con lei per immergerci, come sempre, nei racconti reciproci delle nostre vicende su cui finiamo immancabilmente per farci quattro risate. 
Però non glielo dico e comunque non servirebbe, perché l'amico è stato già invitato. 
Da brava amica, quindi, accetto entusiasta e ci incontriamo in spiaggia… Sorridente, subito mi presento all'amico, che mi apostrofa un po' stupito del mio gesto: "Ma noi ci conosciamo, ci siamo visti a capodanno!". Io penso "cretina che sono, me lo aveva pure detto lei che ci conoscevamo già!" e dico, mentendo spudoratamente, "Ah, scusa… Ma certo che mi ricordo!". 
L'inizio non è male e supera il mio record: prima figuraccia già fatta dopo pochi secondi di conoscenza! 
Se prima ero dispiaciuta di non essere sole, mi rendo conto, dopo poco, che il tizio non è affatto male. Comunque, forse io non sono ancora in vena di nuove amicizie romantiche, dato che ho ancora tanti altri pensieri per la testa e poi, questo tizio interessante, che porta una piccola pigna appesa al collo con una cordicella sottile, sembra essere già impegnato con una latitante tipa che si trova fuori per alcuni mesi. 
Torno a casa, contenta ma un po' delusa, pensando che, come al solito, quelli che mi interessano e a cui io potrei interessare, generalmente sono confusi oppure sono già impegnati con altre... quindi, beh... peccato, non avrò l'occasione di conoscerlo meglio. 
Però, un po' per coincidenza o perché è destino o semplicemente, in fondo, perché lo vogliamo, io e l'amico cominciamo a incontrarci spesso. Le giornate volano e il tempo passa, ma lui sta con un'altra che, sebbene latiti, comunque esiste e io non mi voglio impelagare in situazioni che mi porteranno solo guai. 
Arriva il giorno della mia partenza per una vacanza prenotata da lungo tempo e, per una strana combinazione, lo stesso giorno in cui io ritornerò dalla vacanza, la misteriosa ragazza del mio amico farà pure lei ritorno dal suo lungo viaggio. Ci salutiamo e gli ricordo, con un misto di malinconia e provocazione, che al mio ritorno non passeremo più tanto tempo insieme dato che "finalmente" conoscerò la sua ragazza. 
Al ritorno, preparata mentalmente a fare la simpatica con la suddetta ragazza, noi riprendiamo a vederci come prima della partenza ma lei non compare, io non chiedo nulla di lei e lui non fa parola, fino a quando organizziamo due giorni fuori e ci serve sapere il numero esatto dei partecipanti per organizzarci. 
"Allora voi siete in due, no?" gli chiedo e lui risponde "No, sono solo. Sai, il giorno che lei è tornata ci siamo lasciati". Sono talmente stupita e contenta che per poco non mi metto a ridere, ma dico seria "Mi dispiace".

Compagni di merende (parte 2)

"Il fuoco di un camino
non è caldo come il sole del mattino...
sul mio corpo il calore delle stelle
chissà dov'era casa mia"
(Io vagabondo - Nomadi)


Dopo una mattinata normale, senza eventi romantici di sorta, mi ritrovo, a fine pranzo, coinvolta in una battaglia a... sputi di semi d'anguria! Ovviamente, il mio compagno di merende si trova in prima fila tra quelli che tentano di appiccicarmi addosso i fastidiosi semini e io non sono da meno.
Come ovvia conclusione della battaglia, bisogna lavarsi!
E ci ritroviamo, ancora senza sapere i nomi, magicamente solo noi due, ancora tutti appiccicaticci, seduti per terra vicini, appoggiati al muro del bagno, a parlare per la prima volta.
Ci raccontiamo con semplicità e allegria e scopro, sorpresa, che il mio nome lui in realtà lo sa da tempo.
Il suo racconto è velato di malinconia, di qualcosa che non riesco a capire, ma il mio entusiasmo vale per tutti e due. Trascorrono sereni i giorni previsti della vacanza e l'ultimo giorno penso triste che adesso lui deve partire. Ma, nemmeno se mi leggesse nel pensiero, mi propone di andare a fare un giro in macchina in città un paio di giorni... "potremmo dormire sulla spiaggia con il sacco a pelo".

L'idea di dormire sulla spiaggia sotto le stelle per me è semplicemente fantastica, penso ai Nomadi, "Io Vagabondo" in questi giorni è diventato quasi un nostro inno, insieme a "Non ho più la mia città".

Ben felice, quindi, di aver dato tutte le materie prima delle vacanze e di poter contare, primo, su una macchina a disposizione e, secondo, su una famiglia che mi permette di fare quasi sempre quello che voglio, accetto entusiasta.
Partiamo subito alla volta della città, circa 200 km di autostrada "per modo di dire", siamo in quattro con la mia modesta utilitaria… unici bagagli: i sacchi a pelo, una coperta e la chitarra.
La passeggiata in macchina è molto piacevole, siamo tutti molto affiatati e ridiamo molto, inoltre, complici alcune occhiate attraverso lo specchietto retrovisore, sono abbastanza sicura che tra di noi sta nascendo qualcosa di bello.
Penso che sono proprio felice, ho tutto quello che voglio in questo momento e mi sento molto "vagabonda", insieme a qualcuno che nell'animo è ancora più vagabondo di me.
Arrivati in città, ci dirigiamo subito verso quella che è la reale romantica meta del viaggio: una spiaggia in cui cenare, suonare, cantare e addormentarci al chiarore delle stelle... solo di quelle, perché non abbiamo nemmeno una torcia.
Per fortuna, la serata è splendida e c'è la luna, quindi riusciamo tranquillamente a sistemarci in spiaggia anche senza illuminazione artificiale. Mangiamo alcuni pezzi di pizza, accompagnati ad un po' di vino padronale, che ci sta bene, e cantiamo.
La serata trascorre piacevolmente e ci addormentiamo vicini. All'alba siamo i primi a svegliarci sotto una pioggia sferzante e ci rimettiamo in macchina sulla via del ritorno.
Adesso è veramente il tempo di partire.

Non è successo niente tra noi, niente di tutto quello che caratterizza una storia, ma ci siamo dati tanto, hai ridato fiducia in me stessa e fatto apprezzare cose della vita che non ritenevo "valide", che avevo dimenticato o che semplicemente non conoscevo. Quanto mi ha fatto sentire libera camminare scalza o partire con amici senza meta, senza bagagli e senza porsi limiti, dormire sulla spiaggia, fregandosene dei conforts (che non ci sono), dormire per terra e dedicare parte del proprio tempo agli altri, incondizionatamente.

Sei partito ieri e io sono qui a scrivere che è stato proprio bello conoscerti. Conoscerti e basta.

giovedì 10 ottobre 2013

Compagni di merende (parte 1)

E adesso sto cantando e ancora sto sognando
ma non ho più la mia città
non e' cambiato niente tutte le notti aspetto
ancora una stella cadente
(Ma non ho più la mia città – G. Trovato)


La voce di Gerardina Trovato si diffonde intorno a me, penso che questa canzone mi calza a pennello. Catania non mi basta e vorrei fuggire lontano… a New York perché no? Quello che c’è qui adesso non mi va più bene, voglio altro.

La stanza enorme è squallida, la luce fioca e le pareti bianche lievemente ingrigite, pochi arredi, qualche vecchio grande tavolo di truciolato di pessima qualità.
Alle pareti nessun quadro, solo un paio di cartelli, scritti a mano, in uno si legge “Pulite il tavolo quando vi alzate!” e in un altro “Chi viene sorpreso a lasciare sporco il tavolo a pranzo, sarà inserito nel turno di pulizia dei bagni dell’indomani!”… questo è il tono della vacanza. Autogestione. Siamo una ventina di età compresa tra i 18 e i 25 anni, io mi colloco perfettamente a metà dato che ne ho 21.

Mi sono trovata, come molte altre volte nella mia vita, trascinata in un’avventura in cui non credevo nemmeno troppo, mi sono fatta prendere dall’entusiasmo degli altri e dalla voglia di riempire bene le mie giornate per non avere tempo di pensare.
Con lui è finita, se così si può dire, dato che non so nemmeno se si può dire che sia mai iniziata, e io mi sono imbottita di impegni per non cadere nell’errore di cercarlo di nuovo e adesso sono qui… da due giorni, in un’enorme scuola nella periferia di un piccolo comune della provincia, a condividere con diversi amici e molti sconosciuti, un’esperienza che, a detta di chi l’ha già provata, sarà unica.

Mentre mi guardo intorno, nell’enorme stanza squallida, scrutando le espressioni buffe dei miei compagni di avventura che discutono a gruppi dei turni per la cucina e la pulizia, cammino ciondolando, mangiando uno yogurt alla ciliegia e sorrido sollevata pensando che ho già dato la mia piena disponibilità per le attività esterne piuttosto che quelle di gestione interna, quindi non mi toccherà fare turni in cucina o nei bagni, per fortuna.



Assorta, sorridente e pensierosa, una presenza improvvisa si manifesta davanti a me, fulminea mi ruba il cucchiaino e ne ingurgita il contenuto… “Ma che ci hai messo dentro?”, mi chiede stupito masticando. Lievemente sorpresa e piacevolmente colpita dalla sua intraprendenza, dato che non ci si conosce per nulla (nemmeno i nomi), ma non avevo potuto fare a meno di notarlo già al momento della presentazione generale due giorni prima, ribatto un po’ imbarazzata “… Sai, ci ho sbriciolato dentro una brioscina T”. Lui è del nord e le brioscine T le ha conosciute qui da noi solo da un paio di giorni, sorride e dice “Beh… è buono, me ne dai un altro po’?”. Così consumiamo insieme questa romantica merenda.
Mentre si allontana, ripenso sorridendo al gesto di intimità che ha avuto nei miei confronti e penso che una nuova storia, qualcuno a cui pensare mi aiuterà a non pensare più ai fantasmi del passato. Però è un po’ presto e la distanza è tanta!

Dopo cena, un amico mi convince ad andare con lui e qualche altro a guardare le stelle sul tetto… “Ma ti devi portare il materasso!”, così mi ritrovo, faccia a faccia, con il mio compiaciuto compagno di merende, a trasportare il mio materasso dal mio letto, su per le scale, sino al tetto. La serata è fantastica, la luna illumina perfettamente le nostre facce e si sta benissimo, non serve nemmeno la coperta. A guardare le stelle sul tetto è inevitabile che si formino le coppie e, mentre a due a due gli amici si accomodano guardando romanticamente la luna sulle nostre teste, intraprendente come la mattina, il mio compagno di merende si sdraia accanto a me sul materasso senza nemmeno chiedermi se sono d’accordo… e ancora non sa nemmeno il mio nome.

La genesi atavica del problema

Una volta, su una di quelle belle agende Smemoranda, ho letto questa frase: "L'amore è una motoslitta che corre all'impazzata nella tundra, all'improvviso fa una capriola e si ribalta, bloccandoti sotto. Di notte arrivano i lupi". Non so chi l'abbia scritta e io l'ho sempre considerata il motto della mia vita sentimentale.

Beh... adesso sono proprio immersa nella tundra. Sono bloccata sotto alla motoslitta e vedo i lupi che si avvicinano. Terrorizzata e infreddolita, non riuscendo a produrre pensieri più consoni ed utili in questa terribile e definitiva situazione, riesco solo a chiedermi "Perché mi ritrovo sempre qui, in questa terra desolata, circondata da lupi famelici?".



Sarà forse colpa del mio lanternino?!

Ho sempre pensato che il lanternino è essenzialmente quell’intuito un po’ folle che ti porta a cercare sempre lo stesso tipo di uomo, anche se sai che non è il tuo tipo! È l’intuito che ti porta tra le braccia di uomini affascinanti, che senti come spiriti a te affini e che, dopo aver riso, pianto e fatto tanto meraviglioso sesso, ti lasciano, affranti quanto te, ma senza spiegazioni logiche.

Chi utilizza il lanternino non sempre ne è consapevole, anzi, perlopiù, di questo simpatico strumento si fa un uso assolutamente inconscio. Il lanternino si mette in funzione da solo, di solito proprio quando vorremmo stare tranquilli a casa a dormire. Nessuno sa bene se esista un modo per spegnerlo. Probabilmente il tasto “off” non esiste.

Il processo di avvio del lanternino non è reversibile: una volta partito non si può fermare. E comunque ci si accorge che esso è in funzione solo quando è troppo tardi, generalmente quando si è già innamorati persi dell’uomo che il nostro fedele amico luminoso ha scovato per noi.

Io non solo uso inconsapevolmente, da oltre vent’anni, un lanternino ma, per di più, credo che il mio lanternino sia difettoso!! Difettoso, sì, come Ai Amano, la mia Video Girl preferita. Forse dovrei sostituirlo. Oppure no. L'esperienza di Video Girl Ai mi ha insegnato che non sempre i prodotti difettosi sono peggiori degli altri... anzi, spesso nascondono tanti lati buoni.

Ho sempre immaginato il lanternino come un’antica lanterna bronzea pentagonale, trasportata da gnomi o altre creature fantastiche, solitamente vestiti di rosso, con cappucci e scarpe a punta. Il mio lanternino ha i vetri di colore giallastro, sporchi di fuliggine e dentro una piccola candela azzurra.

Non credo faccia molta luce. Il difetto forse sta proprio in questo: fa poca luce.
Il mio lanternino non ci vede bene.


- 2006

Bagni separati: l'origine del nome di un blog

Io sono una accumulatrice... non di quelle patologiche che si vedono sui documentari di Sky, ma tendo a buttare molto poco, giusto quando le cose sono piene di buchi o delle scarpe mi salta via la suola. 
E, in questo, io e il marito non potremmo essere più diversi... ma non perché lui sia uno che butta, no, lui non accumula: io possiedo due armadi, lui due ante, io un intero armadio per le scarpe, lui uno spazietto di mezzo metro quadrato sotto uno scaffale, una volta, poi, condividevamo l'armadietto del bagno e per il 98% conteneva cose mie.
Dopo anni di convivenza, abbiamo, finalmente, bagni separati
Io ho il mio, con mattonelle dai disegni floreali di tre diversi colori, pieno zeppo di molte cose anche inutili e lui ha il suo, dai colori sobri, in perfetta sintonia con il resto della casa, un bellissimo regno ordinato e quasi vuoto.

Dai nostri bagni separati mi è venuta l'idea per il titolo... bagni separati che sono una sorta di emblema delle diversità tra due persone che vivono insieme. Diversità che ci sono sempre, anche quando amiamo follemente il nostro coinquilino/amante... perché, eccetto che in rari casi (alcuni li conosco personalmente), è proprio difficile che due vadano a convivere e che sia tutto rose e fiori sin dal primo momento, senza nessun problema di adattamento. D'altra parte, due tizi... che per trent'anni hanno vissuto per i conti loro, magari anche con la mamma che preparava loro la pappa a pranzo e a cena, con le proprie abitudini e quelle della propria famiglia di origine radicate sin dentro il cervello... 'sti due tizi vanno a vivere insieme e due mondi, semplicemente, si scontrano.
A volte lo scontro è fatale. Altre volte no e, a poco a poco, si cerca insieme di appianare le differenze...
- ah quindi tu il tubetto del dentifricio lo spremi partendo dal centro? ehm, che simpatico il tubetto con quella forma a 8... però che ne dici se da domani, lo spremiamo partendo dal fondo?
A questo, la risposta potrebbe spaziare da un V@ffanculo dei più radicati nelle proprie posizioni, al Ah, in effetti, discutendo con te di questo problema, mi accorgo che hai ragione e spremere il tubetto dal fondo mi sembra più funzionale, quindi da domani lo farò anche io di quelli disposti a mettere in gioco le proprie posizioni, al Certo amore di quelli che non hanno una propria posizione e assumono in automatico quella dell'altro.
Tra le tre posizioni, preferisco nettamente la seconda.

I bagni separati, poi, rappresentano i propri spazi.
Un tempo sono stata una che ha vissuto quasi annullandosi per un altro. Tempo dopo, anche grazie a una delusione che non dimenticherò finché campo, ho capito che amare non significa annullarsi per l'altro. E che mantenere i propri spazi e i propri interessi individuali, oltre a quelli della coppia, è fondamentale per la sopravvivenza. E poi, magari non per tutte le coppie, ma credo che per la maggior parte, vi sono momenti in cui rifugiarsi nel proprio bagno potrebbe essere l'unica via di salvezza!


Qui sotto due immagini di bagni famosi, entrambi protagonisti del film Shining di S. Kubrick.
Il primo, quello verde, è il bagno della camera 237, nella quale Jack incontra la donna nuda con cui pomicia un po' prima di rendersi conto che è in avanzato stato di decomposizione.
Il secondo bagno, quello rosso, è quello in cui Jack incontra Delbert Grady, vecchio custode dell'albergo, che gli spiega in che modo ha punito sua moglie e le sue figlie che non amavano l'albergo, dandogli proprio un'ottima idea.




Premessa

Questo blog è una sorta di viaggio all'interno dei rapporti di coppia, un viaggio non troppo serio, basato sull'esperienza di una quarantenne che si guarda indietro e ripensa a quanto è bello ridere del proprio vissuto, adesso che non fa più male.
Non sono sicura ancora di quello che scriverò, gran parte delle cose riguarderanno me personalmente e potrei infilare esperienze attuali in mezzo al marasma di quelle passate. Potrei anche mettere in mezzo esperienze altrui, non lo so ancora. L'unica cosa che so è che vorrei descrivere esperienze su cui magari qualcuno sorriderà (perché quello che vorrei cercare di mantenere è il tono semiserio) e in cui magari altri si ritroveranno... Perché a me avrebbe fatto oltremodo bene, in certi periodi, leggere il blog di altri e rendermi conto che non ero l'unica a provare certe cose... ma ai tempi della maggior parte delle cose che scriverò, i blog manco esistevano.

Fonte

Probabilmente qualcuno degli uomini che ho conosciuto, ritroverà, da qualche parte, pezzi di sé, ma ho cercato, dove possibile, di mescolare le situazioni, in modo che nessuno possa affermare inequivocabilmente “Quello sono io!”. 
 
Se qualcuno si dovesse rileggere in queste parole, i casi sono due:
1) se non ci conosciamo, allora è un caso,
2) se ci conosciamo... beh, allora "Ciao, quanto tempo che non ci si vede, eh?"... :)

No... ho rielaborato alcune parti vere ed altre le ho inventate di sana pianta... è difficile che qualcuno possa riconoscersi per intero qui. 

E, comunque, non ho fatto nomi! :)

In ogni caso, grazie a voi tutti per l’inconsapevole ispirazione, vi ho voluto bene e scusate se oggi rido su alcune cose, le stesse che magari, un tempo, ci hanno fatto anche piangere. O MI hanno fatto piangere, più spesso.

Completo la mia premessa con tre cose:
1) non ho pregiudizi, come potrebbe sembrare in qualche pezzo;
2) non sono sessista e credo che uomini e donne abbiano difetti e pregi non in quanto tali, ma in quanto esseri umani (e basta);
3) uno dei "fidanzati tipo" un po' rielaborato, l'ho sposato.





Incipit - Non è mai per qualcosa che succede: l'amore finisce

Frattanto si era fatto tardi e tutt'e due dovevamo andare per i fatti nostri. Ma era stato molto bello, rivedere ancora Annie, dico bene? Mi resi conto di quanto era in gamba – stupenda – e, sì, era un piacere… solo averla conosciuta… e allora io… ripensai a cosa fosse l'amore. L'amore credo sia come una vecchia barzelletta, quella dove uno va da uno psichiatra e dice: "Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina"; e il dottore gli fa "e perché non lo interna?" E poi lui risponde " e così a me le uova chi me le fa?" Bè, credo corrisponda ai rapporti uomo-donna, e cioè che sono assolutamente irrazionali, pazzi e assurdi! Ma credo che continuino, e che la maggior parte di noi, ha bisogno di uova.

Woody Allen, Io e Annie