martedì 17 dicembre 2013

Un viaggio nel passato alla ricerca del futuro (1.a)

Era il primo giorno del corso di scrittura creativa, lo avevo organizzato mesi prima e non vedevo l’ora che iniziasse. 

Era la prima volta che tenevo una vera lezione ed ero un po’ teso. Ero abbastanza schivo e odiavo la popolarità. Sperando di passare inosservato, per quel giorno, avevo optato per un look semplice, quasi trasandato. Non mi ero fatto la barba e i miei capelli castani erano lunghi e scompigliati come sempre. Mi ero messo una maglietta bianca e un paio di jeans chiari. Ai piedi le All Star che erano quasi un mio segno di riconoscimento. 

Appena fuori dall’aula mi ero appoggiato al muro, ripassando mentalmente il mio discorso introduttivo e ad un tratto mi ero sentito osservato: di fronte a me, una ragazza mi stava guardando compiaciuta, sorrideva come se stesse pensando a qualcosa che la metteva di buonumore. L’avevo guardata per qualche secondo con curiosità, lei aveva distolto lo sguardo ed era entrata in aula. 

Non ero nuovo all’essere osservato di sottecchi e normalmente la cosa non mi interessava. Ma quella ragazza era diversa. La prima cosa che mi era venuta in mente guardandola è stata E’ lei. Era carinissima. Non era una bellezza mozzafiato, no. Era normale. Indossava jeans blu scuro e una camicia bianca sagomata con le maniche al gomito. Anche lei aveva le All Star ai piedi, mi era venuto da ridere, chissà se lei aveva sorriso per questo. Era semplice. E con un paio di occhi di colore verde azzurro incredibili, perforanti. 

Fino a quel giorno non avevo creduto ai colpi di fulmine, ma, mentre la osservavo entrare in aula, ero certo che mi stesse capitando in quel momento: un fulmine era arrivato a sconvolgere la mia esistenza tranquilla e monotona e da quel momento tutto sarebbe stato diverso. Lo avevo capito subito. Dopo pochi secondi ero entrato in aula, cercandola con lo sguardo, senza nemmeno preoccuparmi di non darlo a vedere. Ero troppo eccitato, mi sentivo vivo, per la prima volta dopo anni. 

In preda ad una sorta di frenesia, avevo tenuto la prima lezione, senza quasi staccare lo sguardo da lei, che ricambiava le mie occhiate, facendomi impazzire. Avrei voluto che tutti gli altri sparissero e baciarla, lì, subito. Per un attimo avevo temuto anche di non riuscire a controllarmi e che avrei seguito l’istinto di saltarle addosso durante la lezione, incurante del pubblico. 

Appena era uscita dall’aula, l’avevo seguita e le avevo chiesto di venire fuori con me. Per quanto assurdo, sapevo bene che avrebbe acconsentito. L’avevo abbracciata e l’avevo portata al giardino botanico. Lei era presa da me allo stesso modo, non avevo dubbi. Si lasciava guidare senza staccare gli occhi dai miei, sembrava ipnotizzata. Ero felicissimo e le avevo chiesto il suo nome. Chiara

In quei pochi minuti, i suoi tratti si erano impressi per sempre nel mio cervello: la sua bocca piccola e attraente, i suoi occhi vivaci e cangianti, i suoi capelli a spaghetto, il suo corpo piccolo, proporzionato. Mi attraeva in maniera incredibile. Questa ragazza aveva qualcosa che non avevo mai trovato in nessuna. 

Eravamo stati pochi minuti insieme, poi Fabio era venuto a chiamarmi ed ero dovuto tornare in aula. L’avevo salutata e lei era rimasta lì a guardarmi come fosse frastornata. Il colpo di fulmine aveva colpito anche lei, ero sicuro. Felicissimo, ero corso via, fantasticando già sul nostro futuro. 


Soltanto appena tornato a casa, il peso della realtà era tornato a schiacciarmi e la felicità della mattina si era trasformata in uno strazio: non potevo coinvolgere un’innocente ragazza nella mia vita piena di pericoli. 

Avevo deciso, quindi, con una forza di volontà che non mi apparteneva, di tagliare quella storia non ancora iniziata e cercare, se possibile, di dimenticare Chiara, anche se mi sembrava pura follia.

Così il giorno dopo non l’avevo nemmeno salutata e avevo visto la delusione distruggere il suo splendido sorriso. L’immagine dei suoi occhi che mi cercavano e che vedevano in me un estraneo mi aveva fatto star male come niente altro al mondo. Cercavo di dissimulare la mia frustrazione e il mio dolore ed ero bravo nel mascherare i miei sentimenti, ero sicuro che stesse pensando che ero un bastardo. Meglio, sarebbe stato più facile. Per lei. 

Ero riuscito a comportarmi malissimo per tutta la settimana. Credevo che sarei riuscito nel mio intento di farmi odiare, ma di dimenticarla non se ne parlava proprio. Continuavo a vedere lei dappertutto. Pensavo a lei, sempre. Gli sguardi del primo giorno mi tormentavano. Non facevo altro che immaginare di baciarla, in mille modi diversi avevo immaginato il nostro primo bacio in quei giorni. E ognuna di quelle immagini era meglio di quella precedente. Mi stavo torturando, immaginando qualcosa che non poteva accadere, che sapevo non doveva accadere e che desideravo con tutto me stesso che accadesse.

Il lunedì mattina, appena arrivato davanti al cancello della facoltà, l’avevo vista. Stava parcheggiando la macchina. Il destino aveva voluto che ci incontrassimo di nuovo. La mia forza di volontà era svanita tutta di colpo. Mi sentivo come creta tra le mani di lei, volevo solo che mi guardasse, che mi toccasse, che mi facesse suo. Ero rimasto immobile, appoggiato ad un palo della luce, ad osservarla mentre usciva dalla macchina e si accorgeva di me. Probabilmente non mi odiava ancora perché un sorriso enorme le si era disegnato sul viso, le avevo teso le braccia e le avevo detto che mi era mancata, poi l’avevo abbracciata. In preda ad una felicità assurda per quel contatto, consapevole che per lei era lo stesso, non ero riuscito a trattenermi e le avevo sollevato il viso per baciarla. Credo che non sia esistito mai un bacio tanto perfetto, meglio di come lo avevo immaginato, troppe volte, nella settimana prima. Sentivo le sue labbra sulle mie, la sua lingua che mi esplorava e si univa alla mia, dolcemente. Ci fermavamo a riprendere fiato e continuavamo a baciarci, lì sul marciapiede, dove chiunque avrebbe potuto vederci. Dove chiunque sapeva chi ero. Ma in quel momento non me ne importava niente. Ero felice. 

Quando ci eravamo staccati non avevo potuto trattenermi dal ridere e le avevo detto che quella scena l’avevo vissuta nella mia testa tante volte. Lei aveva fatto un’espressione confusa e, come se stesse anche lei riprendendo il contatto con la realtà in quel momento, mi aveva chiesto spiegazioni. In un impeto di sincerità, le avevo detto chi ero. Lei era visibilmente sconvolta dalla mia confessione, non se lo aspettava proprio ed era entrata in aula senza rispondermi. 

La mia paura più grande, dopo aver realizzato che cosa le avevo detto, era che mi prendesse a schiaffi, ma non l’aveva fatto. 

In aula avevo di nuovo cercato i suoi sguardi e lei aveva ricambiato, anche se aveva perso l’aria decisa della prima volta e sembrava un po’ confusa. Non potevo darle torto. Mentre parlavo, qualcuno mi aveva fatto una domanda e, non so come, ero finito a parlare del destino. Il destino per me era Chiara e non avevo perso l’occasione per dire, sorridendo, che contro il destino non si può combattere. Dal suo sguardo avevo capito che lei aveva colto la mia allusione. Come avrebbe potuto non coglierla? Ogni mio pensiero, ogni cosa che dicevo era rivolta a lei.

Finita la lezione, contro ogni mio proposito, ormai incapace di seguire la razionalità, l’avevo invitata a pranzo ed avevamo passato un pomeriggio meraviglioso insieme. Sapevo che non avremmo avuto un futuro insieme, anche se Chiara era inequivocabilmente la mia anima gemella, l’altra metà del cielo, quella che si incontra una sola volta nella vita. 


Ero così preso da Chiara, che le avevo anche chiesto di sposarmi quel pomeriggio; lei era rimasta visibilmente colpita, lusingata forse ed era arrossita, ma mi aveva dato la risposta che non avrei voluto sentire. Se mi avesse gettato le braccia al collo dicendomi di sì in quel momento, forse sarei scappato con lei, sarei fuggito a gambe levate dalla mia realtà, lasciandomi tutto alle spalle. Ma Chiara, dimostrandosi molto più matura della sua età (e anche di me), mi aveva risposto razionalmente, dicendomi di no. Anche se aveva delle ottime ragioni per rispondermi così, le sue parole mi avevano smontato e avevano frenato la mia eccitazione, riportandomi con i piedi per terra. 

In quel momento mi sentivo così coinvolto e avevo sentito un’ammirazione per lei così grande che mi ero sbilanciato dicendole che avrei voluto dirle che l’amavo. Lei era rimasta a guardarmi, probabilmente chiedendosi a che gioco stessi giocando e allora avevo cambiato discorso parlando di banalità, lanciando ogni tanto qualche battuta sul fatto che avremmo potuto essere amanti se avessimo voluto, che per noi c’era solo questa possibilità. Mi ero comportato malissimo, ma non volevo illuderla più di quanto non stessi già facendo. E poi ci eravamo salutati molto tristi, dicendoci che la cosa finiva lì. 

I giorni successivi a lezione erano stati tremendi, era terribile che lei fosse lì e io non potessi toccarla, abbracciarla, baciarla e quasi nemmeno parlarle. Non avrei saputo trattenermi. L’ultimo giorno ci eravamo salutati freddamente e lei mi aveva fatto gli auguri per la mia nuova vita. Era stato terribile sentirsi dire parole di circostanza, sapendo bene che né io né lei avremmo mai voluto che io compissi quel passo. Avevo trascorso la settimana successiva, tentando in ogni modo di dimenticarmi di lei, ma non era facile. 

Una sera, per disperazione, ero andato da solo ad un concerto e il destino aveva voluto che ci incontrassimo di nuovo. Durante la prima mezz’ora ero stato completamente distratto e sentivo nell’aria il suo profumo, sentivo che l’avrei incontrata presto. Cercavo nelle file davanti, nel buio, sperando di incontrare il suo sguardo, ma non era accaduto. 

Queste cose succedono solo nei film, mi ero detto. 

Poi mi ero sentito bussare su una spalla e sapevo già che era lei, ma avevo paura di voltarmi perché temevo di rompere l’incantesimo. Come in un film al rallentatore, mi ero girato e avevo visto il suo viso nel buio. I miei occhi si erano illuminati e anche i suoi. Eravamo scoppiati a ridere. 

Camminando come due fidanzati, eravamo andati al porticciolo e ci eravamo sdraiati su un masso, fianco a fianco. La luna, la notte, le stelle, il mare, l’estate mi rendevano euforico e fin troppo consapevole del suo corpo accanto al mio. Non mi era capitato mai prima, avevo iniziato a tremare, il mio corpo era scosso da brividi violenti e inarrestabili. Se n’era accorta immediatamente. Ci eravamo girati contemporaneamente l’uno verso l’altra e, come qualcosa che non puoi fermare, ineluttabile come il destino, ci eravamo trovati avvinghiati a baciarci eccitati. 

Non so per quanto tempo eravamo rimasti così, io sentivo il mio cuore scoppiare e non ero riuscito a trattenere le mie emozioni, così le avevo detto che l’amavo. Lei si era alzata e mi aveva preso per mano, portandomi in una spiaggetta illuminata solo dalla luna sopra di noi. Mi ero sentito come se fossi il protagonista di un film, mille pensieri mi avevano attraversato la testa, l’eccitazione di quel momento era incredibile. La guardavo, tenendola per mano, cercando di leggerle nella mente i pensieri che potevo facilmente indovinare. Non era difficile immaginare fin dove ci saremmo spinti quella sera e non vedevo l’ora. Sapevo che lei era ancora molto giovane e che probabilmente aveva deciso di concedersi a me per la prima volta, contro ogni buon senso. Ma ero troppo egoista e la desideravo troppo per cercare di dissuaderla. Mi aveva sorpreso per la sua intraprendenza quando, guardandomi negli occhi, si era sfilata il vestito ed era rimasta con un completino intimo azzurro che le donava in maniera incredibile. Continuando a percorrere la strada che era già segnata, le avevo detto che era bellissima e poi mi ero spogliato anche io. Aveva guardato il mio corpo con indosso solo i boxer blu con un’aria carica di desiderio e insieme ci eravamo diretti in acqua. Era stato tutto molto naturale fra di noi. Immagino che sia andata così bene proprio perché eravamo noi due, non poteva andare diversamente, non poteva andare male. Non con lei. 

Avevamo passato il limite, sarebbe stato ancora più difficile tornare indietro. Non ci eravamo detti molte parole, non ce n’era bisogno. Sapevamo perché l’avevamo fatto: non potevamo rinunciare a questi momenti, sarebbe stato un rimpianto troppo grande per entrambi. Così avevamo deciso di vivere comunque il momento, a dispetto della realtà. 

L’avevo accompagnata a casa e pensavo di essermi innamorato follemente di lei, non volevo separarmene perché temevo per l’indomani. Il nostro futuro non era certo. La notte non avevo chiuso occhio, non avevo fatto altro che pensare a quei momenti meravigliosi e immaginavo di riviverli ancora… e ancora. 

La mattina dopo mi sentivo un quindicenne alla sua prima cotta, ero andato a prenderla ed eravamo stati tutto il giorno insieme. Le giornate si erano susseguite felici e simili, sempre innamorato, sempre con lei, per dieci interi giorni. 

Le mie sicurezze vacillavano in quel periodo e da lei volevo delle certezze che non mi dava. La sua maturità era sempre troppo evidente, come una barriera tra noi. Stroncava le mie proposte di matrimonio perché non voleva illudermi che sarebbe rimasta con me per sempre. Era molto onesta, riconosceva che a diciotto anni non era facile promettersi sinceramente a un uomo appena conosciuto (che non si comportava come uno stinco di santo oltretutto). La mia stima nei suoi confronti cresceva sempre di più. E anche l’amore. 

Chiara aveva un modo di fare che mi stupiva e mi sconvolgeva, affascinandomi immensamente. Dimostrava di apprezzare il mio modo di essere, le piacevo davvero. La sua presenza nella mia vita mi stava ricreando, stavo nascendo una seconda volta, mi sentivo un fortunato come pochi ad avere avuto questa occasione. Per quanto mi sembrasse assurdo, per qualche strana ragione lei sembrava essere innamorata di me almeno quanto lo ero io di lei. Non mi ero mai sentito così, nemmeno quando mi ero innamorato per la prima volta.

Per me Chiara era come una droga, non riuscivo a pensare di stare senza di lei. Andavo a prenderla alle otto del mattino e la riaccompagnavo a casa a notte fonda. Facevamo un sacco di cose insieme, anche le più stupide, divertendoci come matti, ridevamo molto, per qualsiasi cosa.

Mi sentivo un pazzo, avevo la certezza di essermi follemente innamorato e anche la certezza che non saremmo mai stati insieme e la colpa era solo mia.

L’ultima volta che ci eravamo visti, avrei voluto scriverle una dedica bellissima che rispecchiasse i miei sentimenti per lei, ma ero riuscito solo a scarabocchiare “Per la prossima vita che vivremo. Come anticipo”. Era un pensiero molto triste, senza speranza, come ero io. 

Avevo poi preso in prestito le parole, altrettanto tristi, del mio poeta preferito Pablo Neruda e le avevo dedicato alcuni versi struggenti il cui significato è ti lascio e ti auguro di dimenticarmi, ma ti sarò sempre accanto. Esattamente quello che provavo per lei. 

Quella sera l’avevo accompagnata a casa e sotto il portone ci eravamo salutati frettolosamente, lei era scesa dalla macchina e non si era voltata indietro. Sapevo che non lo avrebbe fatto e speravo invece che lo facesse. Forse, in quel caso, la mia volontà avrebbe vacillato di nuovo. 

Mi ero allontanato nella notte, in compagnia del silenzio e della sua assenza accanto a me, così palpabile dopo dieci giorni in cui non avevo visto che lei per quasi venti ore al giorno. Stavo malissimo. 

Avevo telefonato a Fabio e mi ero fermato per un paio di birre insieme, sperando di distrarmi e poi, tornando verso casa mia, ero ripassato sotto casa di Chiara e mi ero fermato qualche minuto. Completamente distrutto, speravo che chissà per quale motivo assurdo, lei sarebbe uscita alle tre del mattino, mi avrebbe visto lì e mi avrebbe abbracciato. Ma ovviamente non era successo. 

Succede solo nei film

Ero tornato a casa e avevo pianto quasi tutta la notte, sentendomi davvero miserabile.


Per la versione della storia dal punto di vista di lei, qui.